Con l’avvento della società post industriale, di cui internet rappresenta l’emblema, assistiamo ad un ritorno a forme sociali e culturali di “tanti per tanti”. Come già accaduto in altre epoche storiche, si allarga la platea di coloro i quali sono messi nelle condizioni di esprimersi ed esprimere le proprie visioni del mondo. Ciascuno di noi può essere produttore di post su Facebook, voci su Wikipedia o ricercatore su piattaforme di gamification come Fold It. Una moltitudine di CreAttivi che diventa moltitudine di fruitori all’interno di un processo di democratizzazione verso l’accesso culturale. Ed è così che gli stessi individui sono nelle condizioni di accedere a miliardi di voci su Wikipedia, a milioni di ore di filmati su Youtube ed ad una infinità di foto su Instagram. Una società orizzontale, interconnessa, osmotica, nomadica, orale e tribale.
Proprio il superamento di modelli piramidali, tipici della società industriale, ci ricollega fortemente al periodo preistorico contrassegnato da forme nomadiche e tribali. Gli appartenenti ai gruppi di raccoglitori/cacciatori vantavano conoscenze teoriche, pratiche, obblighi e doveri uguali a chiunque altro. Erano tutti, a loro modo, produttori e consumatori di cultura. Per decine di migliaia di anni, almeno fino a quando in aree medio-orientali l’Homo Sapiens iniziò a dar vita a società stanziali di agricoltori/allevatori, la realizzazione di incisioni rupestri, statue, manufatti in ossidiana ed architetture non era delegata a specialisti. In questo contesto, molto vicino alla società attuale, risalgono i primi manufatti che potremmo definire artistici così come le prime testimonianze di religioni e stratificazioni sociali.
L’assenza di saperi specialistici e di forme gerarchiche, favorisce trasformazioni cognitive stimolate dalla capacità di immaginare cose che non esistono in realtà. La statuetta a forma di leone/uomo rinvenuta nelle grotte di Stadel (Germania 30.000 a.c.), le decine di strutture monumentali rinvenute dagli archeologi nel sito di Gobekli Tape (Turchia 9500 a.c.), i corredi funerari composti da decine di migliaia di perline di avorio a Sungir (Russia 28.000 a.c.) ci raccontano pratiche collettive in cui ogni membro della comunità partecipava alla realizzazione di manufatti, in forme non dissimili dai modi in cui oggi tanti collettivamente producono “contenuti” veicolati tramite le piattaforme digitali.
I Sapiens, a differenza dei Neanderthal, iniziarono a collaborare in modo estremamente flessibile con un numero potenzialmente infinito di estranei. Cinquantamila anni fa si realizzò, paradossalmente, quanto teorizzato recentemente dal filosofo francese Pierre Lévy col nome di “intelligenza collettiva”. Essa permette alle persone di unire le loro forze intellettuali, la loro immaginazione, la loro creatività, le loro conoscenze: egli pensa ad un grande “cervello collettivo”, una “ipercorteccia”. Un fenomeno spontaneo, allora come oggi, che porta ad una radicale rivoluzione culturale di “tanti” per “tanti”, in antitesi con quanto sperimentato nei secoli della società industriale figlia di una cultura di “pochi per pochi”.
Prima dell’avvento di Wikipedia, l’ enciclopedia era prodotta da case editrici che si affidavano a specialisti ai quali demandavano il compito di scrivere singole voci. Questo non fu altro che l’ultimo tassello di una progressiva settorializzazione della produzione culturale che mosse i suoi primi passi con l’avvento delle società agricole stanziali preistoriche. Il surplus alimentare favorì la suddivisione dei beni e la nascita di specializzazioni in seno alle comunità. Questa tendenza si rinforzò con l’arrivo delle società alfabetiche, dove la pratica di produzione materiale era riservata a coloro i quali conoscevano perfettamente le regole e detenevano il sapere specialistico. Tappeti, statue, edifici, gioielli rientravano nei vocaboli “Téchne” in Grecia ed “ars” a Roma con un evidente richiamo alla capacità tecnica più che a quella creativa.
Con alcuni intermezzi, ad esempio l’arte sacra collettiva alto medievale, la produzione di pochi per pochi toccò uno dei suoi apici durante il Rinascimento. All’interno delle corti si consolidò l’idea dell’artista, più vicino a come lo intendiamo noi oggi, ed i talenti individuali erano incentivati ed iniziarono a firmare le proprie creazioni. Non solo la produzione era affidata a pochi eletti ma anche il consumo delle opere era per pochi. Le sinfonie realizzate da Mozart nel ‘700 erano ad uso e consumo della ristretta cerchia di invitati dall’arcivescovo di Salisburgo. La situazione non è cambiata radicalmente nel ‘900 con l’avvento della cultura di massa. Le forme di produzione restarono ancorate a pochi eletti mentre a mutare furono le forme di consumo: quel brano di Mozart prodotto da uno e consumato da pochi nel ‘700 continuò ad essere prodotto da uno ma consumato da tanti grazie a strumenti di massa come la radio prima e la televisione poi. Il ‘900, e largamente ancora questo inizio di XXI secolo, potremmo definirlo come un’epoca di “pochi per tanti”.
Ritornando alle culture di tanti per tanti è interessante notare come essere siano scevre dai concetti di tempo e spazio. Se in epoca preistorica distanze temporali e spaziali non erano ancora conosciute, oggi perdono la loro valenza in una società inter-conessa in cui le istanze si trasmettono in tempo reale ovunque. Oggi come allora tendiamo a produrre divinità temporanee, intese come espressioni culturali destinate a essere vissute hic et nunc senza una precisa volontà di trasmissione ai posteri. La democratizzazione della partecipazione culturale porta ad un rituale collettivo di sovrascrittura di quanto realizzato. Le stories su Instagram nascono e muoiono nell’arco di 24 ore destinate ad essere sostituite da altre che produrremo. Si pensi alla pittura rupestre della “Eva Aborigena” che presenta evidenti sovrapposizioni, in tempi diversi, di altre mani, in antitesi con l’eternità e cristallizzazione a cui ambivano gli affreschi del Buonarroti nella Cappella Sistina nel 1500. Le fughe in avanti, tecniche ed estetiche, che l’umanità ha conosciuto sono spesso coincidenti con strutturazioni di pochi per pochi, o tutt’al più di pochi per molti. L’allargamento dei pubblici di pratica tende a spostare l’asse di attenzione dal prodotto al processo. Non è la risultanza qualitativa del manufatto a importare in epoca preistorica e nel XXI secolo, quanto piuttosto l’aggiunta di valore che ogni individuo concorre alla produzione collettiva.
Il pendolo del tempo ci riporta ad cultura che non ha più un inizio ed una fine, una cultura che non si legge più da sinistra a destra, una cultura che è intrinsecamente collettiva nel duplice senso di un processo creativo che, da un lato, parte da figure professionali molteplici, necessarie per governare la complessità del XXI secolo – ed in questo in contrapposizione con l’idea dell’artista genio singolo ed individuale di epoca rinascimentale; e, dall’altro, è ancor di più collettivo grazie a un pubblico che contribuisce attivamente, apportandovi le proprie storie ed istanze.