Una delle grandi distorsioni del sistema culturale italiano è la totale assenza di conoscenza del pubblico che frequenta musei, teatri, biblioteche, siti archeologici, giardini botanici, edifici storici e festivals. Come è possibile sviluppare strategie per migliorare l’offerta culturale se quasi nessun direttore ha una benché minima idea di coloro i quali accedono alla “propria” struttura? Il dato quantitativo degli accessi e degli incassi (recentemente diventato un mantra) non restituisce in alcun modo la qualità demografica e non è utilizzabile per sviluppare politiche di ampliamento dei pubblici, coinvolgimento, miglioramento dei servizi, segmentazione dell’offerta, fidelizzazione e monetizzazione.
Ipotizziamo un luogo che ha staccato 10.000 biglietti nel 2017, (solo 1000 dei nostri musei raggiungono tale soglia annuale) paradossalmente nessuno sarà in grado di dirci se la stessa persona ha acquistato la totalità degli ingressi o se si è trattato di 10.000 individui diversi. Uomini o donne? Bambini o anziani? Locali, nazionali o internazionali? Quanto è durata mediamente la visita? In quali aree si sono soffermati maggiormente ed in quali meno? Quante volte sono ritornate? E’ stata una esperienza individuale o con amici/familiari? Quali sono state le opere/esperienze che li hanno maggiormente colpiti? Quante foto o post hanno condiviso sui social prima, durante e dopo l’esperienza? Oltre al biglietto hanno fruito del bookshop o dell’area bar? Se si, quale è stato il loro ARPU (average revenue per user o guadagno medio per singolo utente)? Senza i dati è impossibile effettuare una programmazione nazionale e locale e si continuerà sempre ad inseguire singole opinioni ed intuizioni, più o meno brillanti.
Conoscere il pubblico è la conditio sine qua non per governare le politiche culturali e programmare il futuro. La resistenza al cambiamento è contigua ad una inveterata convinzione che i luoghi culturali, in quanto responsabili della conservazione di quello che fu, non debbano rispondere a coloro i quali vivono il presente ed ancor meno lavorare per diventare spazi ad uso e consumo delle future generazioni con tutti i mutamenti, strutturali, gestionali e di rimodulazione dell’offerta, che questo comporta.
La diretta conseguenza di queste decennali politiche culturali è stato il dimezzamento della partecipazione nei musei italiani del bacino demografico 15-24 nel 2011 (se paragonato al 1999) a fronte di una triplicarsi degli anziani (65 anni e oltre), che passano dal 4,5% a oltre il 13%. I luoghi culturali italiani, salvo alcune oasi felici, hanno interamente rinunciato a parlare alle ultime due generazioni che in ambito marketing e sociale vengono definite come Y (1980-2000) e Z (nati dopo il 2000) che, non per coincidenza, sono quelle cresciute e nate durante la rivoluzione post-industriale di cui internet è l’emblema. Entrambe rappresentano una coorte con tratti assimilabili ed in netta divergenza rispetto alla coorte precedente rappresentata dai Baby Boomers (1940-1959) e X (1960-1979).
Su questo tema ho avuto diverse occasioni di soffermarmi specificatamente, pertanto rinvio alla lettura di miei precedenti contributi su Artribune e Giornale delle Fondazioni.
Possono i nostri luoghi culturali prescindere dalle nuove generazioni?
In assenza di dati significativi italiani, ho deciso di fare riferimento ai comportamenti dei “millenials” americani che attivamente visitano luoghi culturali. Pur essendo i tassi di partecipazione culturale italiani, ed europei in generali, superiori rispetto agli States mi interessa particolarmente comprendere chi sono i giovani che entrano in un museo, come trascorrono le loro giornate, cosa amano e cosa non amano fare. Informazioni psico-comportamentali essenziali per correggere numerose distorsioni in atto nell’offerta culturale.
Analizzando e comparando i dati degli americani, suddivisi in GEN X (1960-80) e GEN Y (1980-2000), che hanno visitato almeno una volta una istituzione culturale nell’ultimo biennio emergono interessanti spunti di riflessione immediatamente traducibili in pratiche quotidiane di programmazione e gestione.
Si rileva l’importanza di una relazione tra istituzione culturale e mondo universitario e post universitario, un connubio in grado di dar vita a centri di ricerca congiunti e finanche alla co-abitazione di una medesima struttura. Uno degli esempi europei è lo ZKM di Karlsruhe, Centro di Arte e Tecnologia di caratura internazionale in cui convivono le funzioni tipiche di un museo, 3 centri di ricerca e sperimentazione congiunti e trovano casa alcuni dipartimenti universitari. Il risultato? Nel 2017 il 53% dei visitatori è under 35 con una media ben più bassa rispetto al resto del circuito culturale tedesco ed europeo in generale.
L’accesso ad una rete wifi a banda larga nell’istituzione rappresenta non più una commodity ma parte essenziale dell’esperienza. Perché mai un visitatore, ancor di più un turista internazionale che non ha con se un piano dati telefonico, dovrebbe rinunciare ad una parte integrante e fondamentale dei suoi comportamenti una volta varcata la soglia di un museo o area archeologica? Per l’istituzione offrire connettività gratuita significa poter profilare e tracciare il visitatore ottenendo una risorsa fondamentale , e ben accettata dal visitatore, per ottenerne dati. Ad oggi la situazione italiana è disastrosa tra istituzioni che non offrono affatto suddetto servizio, talune che lo offrono ma con una qualità dell’esperienza imbarazzante e rare che si sono adeguate a standard internazionali. La digitalizzazione del fruitore culturale nato dopo il 1980 rende fondamentale un approccio e-commerce in seno all’istituzione dandogli la possibilità di richiedere informazioni, acquistare biglietti, prenotare eventi, acquistare prodotti direttamente online cosa ad oggi sottodimensionata anche da parte dei responsabili dei grandi attrattori culturali italiani. Si pensi che l’ACMI di Melbourne genera tramite il proprio e-commerce oltre un milione di dollari di fatturato.
E’ fondamentale la presenza di una o più aree bar/ristorante nello spazio culturale in grado di favorire il tasso di ritorno ed il grado di soddisfazione soprattutto per coloro i quali decidono di trattenersi per ore. L’area ristoro dovrebbe essere accessibile già dal fronte strada e servire parimenti gli avventori culturali quanto coloro che lo utilizzano come mero punto di incontro e relax. I prodotti da veicolare dovrebbero tendere al KM0 ed essere salutari per venire incontro alle esigenze espresse delle nuove generazioni. Anche in taluni luoghi italiani, penso all’ex sede Olivetti ad Ivrea l’attuale ristorante presenta sottili quanto costanti richiami alla storia del luogo esponendo alcuni manifesti e macchine da scrivere e dando alle pietanze i nomi di alcune delle più celebri invenzioni Olivetti.
In questo una “semplice” area ristoro diventa parte integrante dell’esperienza culturale complessiva e fornisce uno straordinario e senza attriti momento di ingresso – entry point – per quei pubblici che potremmo definire non interessati o addirittura non pubblici. Inoltre queste aree contribuiscono alla creazione ddelle comunità dei membri del museo, si pensi alle iniziative che NGV Vancouver riserva ai propri “member” l’appuntamento fisso settimanale per consumare un tea insieme oalle famiglie che si danno appuntamento per pranzare al ristorante del Melbourne Museum (accedendo a sconti in quanto possessori della member card) mentre i bambini giocano nella contigua area playground. Infine non è trascurabile l’importanza in termini economici, un’area bar ben gestita può movimentare milioni di euro annui contribuendo alla sostenibilità complessiva della istituzione.
A livello di mobilità urbana sarebbe fondamentale collegare l’istituzione culturale con postazioni di car e bike sharing, rastrelliere per le bici, servizi autobus/navetta in considerazione della sempre minore propensione a possedere ed a guidare autovetture di proprietà. Il luogo deve poter essere raggiungibile in una pluralità di modi, meno importanza rivestirà in futuro l’accesso e la possibilità di parcheggio di una autovettura.
Il marketing beneficerà della gentrificazione delle nuove generazioni sempre più propense a vivere presso i principali centri urbani. In termini pratici le campagne fisiche (cartellonisitca, flyers…) e digitali (sponsorizzate sui social network, google adv..) potranno focalizzarsi sulle poche grandi città metropolitane italiane dove si concentrerà il bacino dei millenials visitatori di musei e mostre.
Infine, ma non per importanza, quei musei che assumeranno un ruolo sociale nella contemporaneità e si faranno promotori di battaglie civili ed etiche riusciranno a fidelizzare porzioni importanti di millenials molto più disposti a donare il proprio tempo e soldi (online) a cause nelle quali credono.
Passando dai pubblici attivi ai pubblici potenziali, ovvero coloro che sono tendenzialmente inclini all’esperienza culturale pur non praticandola, diventa ancora più importante soffermarsi sulla analisi dei dati che ci raccontano le 15 principali barriere di ingresso negli States schematizzate in ordine di importanza dall’alto verso il basso. Lo schema presenta la bipartizione tra millenials (1980-2000) e non millenials (1960-1979) in cui è facile scorgere alcune differenze sostanziali nei desideri, paure ed aspettative. La premessa è d’obbligo, i cluster non sono dei monoliti inscalfibili (ci saranno 20enni con attitudini più vicine ad un cinquantenne e viceversa) ma servono a fornirci delle macro-indicazioni a partire dalle quali si possono articolare delle personas.
Si riscontrano quattro macro-categorie di frizioni che fungono da deterrente all’ingresso in musei, biblioteche, teatri, opere sinfoniche, siti archeologici.
1. Soprattutto le nuove generazioni preferiscono altre attività nel loro tempo libero (principale barriera e ben 12 punti di stacco tra le 2 generazioni esaminate), ed è qui che i musei pagano lo scotto nell’essere considerati luoghi ed esperienze avulsi dalla quotidianità. Da tempo inizio i miei talk dichiarando che le istituzioni culturali devono rifuggire dalla auto-referenzialità e smettere di credere in una competizione con istituzioni similari. Oggi la sfida primaria si gioca con Netflix, Spotify e Clash of Clans sia in termini di attenzione economica che, soprattutto, temporale del visitatore. E’ il tempo, prima ancora del denaro, il vero bene finito delle nuove generazioni. Conquistare la loro attenzione, allungare il tempo medio di permanenza, aumentare il tasso di ritorno, trasformarli in ambassadors è la più grande medaglia sul petto di cui una istituzione culturale può insignirsi al giorno d’oggi.
2. La facilità di accesso alla struttura in termini di orari di apertura e chiusura, raggiungibilità con mezzi pubblici/viabilità alternativa ed architettonica è una discriminante fortissima. La comodità ed elasticità degli orari di apertura riveste grande importanza nella capacità attrattiva verso i millenials, le aperture tardo pomeridiane e serali sono un propellente alla visita per gli under 35 così come l’accessibilità nei giorni festivi. Per i non millenials è fondamentale poter arrivare in auto e parcheggiare nelle vicinanze (magari con uno sconto abbinato al biglietto di ingresso), mentre per i millenials – come già evidenziato in precedenza – la possibilità di raggiungerlo comodamente a piedi, in bici o con bike sharing dal proprio posto di lavoro o dalla scuola dei figli rappresenta un enorme valore aggiunto. L’infrastruttura digitale del museo ed il customer care giocano un ruolo fondamentale, si tende a pianificare sempre più tutto online e la possibilità di poter leggere informazioni esaustive sulle attività, prenotare via mobile i biglietti, saltare le code ed altre forme di accelerazione dell’esperienza sono molto ben gradite.
3. La qualità della prima esperienza e la possibilità di vedere e fare costantemente nuove cose. E’ una delle sfide più complesse per i luoghi italiani dove la qualità della visita in generale, ed a maggior ragione della prima visita, non è considerata parte integrante della mission. In un’epoca in cui si hanno molteplici opportunità e stimoli senza fine bruciarsi il primo contatto significa perdere definitivamente quel visitatore salvo poi poterlo riconquistare con indificili fatiche e costi. Essere una istituzione culturale non concede alcun vantaggio competitivo rispetto alle restanti attività perpetrabili nell’arco delle 24 ore e sarebbe bene dotarsi di figure professionali in grado di lavorare sulla user experience museale. Il secondo tema, in qualche modo connesso, è l’attuale strutturazione della maggior parte delle istituzioni italiane basate su allestimenti ed offerte permanenti. Alla domanda cosa troverò di nuovo da fare o vedere nel caso decidessi di ritornare, non diamo quasi mai risposte. Allestimenti temporanei costanti, aree bar e ristoro, attività settimanali, eventi, boutique, proiezioni, spazi adibiti co-working, residenze artistiche, aree verdi sociali da utilizzare come luogo di incontro sono alcune delle politiche attuabili per mitigare questa barriera di ingresso.
4. Verticalità degli spazi culturali. Ancora oggi i luoghi culturali, e non solo, sono incardinati intorno ad una concezione verticale della società mutuata dalla rivoluzione industriale. D’altronde non vi è da stupirsi, i musei sono una invenzione largamente ottocentestesca e novecentesca e non sono più allineati con un mondo sempre più orizzontale. Si rileva la necessità di decompartimentalizzare la cultura consentendo al medesimo luogo, o aree come la UEDO a Tokyo, in cui convivono varie istituzioni, di accogliere differenti istanze culturali e supporti (libri, statue, dipinti, immagini in movimento) a cui corrisponderebbe una eterogeneità dei pubblici e il superamento dell’idea di luoghi pensati per pubblici specifici. Ha ancora senso che la biblioteca sia in un edificio, il museo di storia naturale in tutt’altro, il teatro in un altro ancora? Quanti vantaggi otterremo in termini di contaminazione delle esperienze culturali, ricerca congiunta tra settori culturali ed infine risparmi dall’armonizzazione dei costi di gestione?
In due delle 15 barriere si denota la connotazione dei luoghi culturali come adatti o solo per adulti o solo per bambini impedendo la co-frequentazione di questi due cluster e penalizzando la dimensione familiare. Nei miei viaggi all’estero ed in uno dei piani strategici che sto coordinando per un museo di prossima apertura salteranno totalmente queste barriere rendendo lo spazio a misura di adulti e bambini pur nel rispetto delle differenti esigenze.
Non ho volutamente includere come quinta barriera di ingresso il costo della cultura. In settimane in cui il dibattito sembra lobotomizzato su gratuità vs pagamento, i dati ci dicono che l’incidenza del costo del biglietto è minimale nei processi decisionali del visitatore (14° motivazione su 15). Paradossalmente è un incentivo maggiore per chi vuol ritornare più volte che non per il first time user come spesso viene addotto dai sostenitori della tesi della gratuità. Il problema non è il costo del biglietto in se quanto piuttosto la qualità dell’esperienza che si è in grado di offrire al visitatore. Una pessima esperienza di visita non porterà visitatori neanche se dovesse essere il museo a pagarli, così come una straordinaria esperienza di visita spingerà il visitatore a donare più del prezzo del biglietto imposto.
Personalmente non sono un estimatore di entrambe le strategie, tutto gratuito o tutto a pagamento, preferendo un modello duale in grado di far convivere nella medesima struttura aree e servizi ad accesso gratuito con altre a pagamento con scaglioni di prezzo diversificati (politiche di facilitazione per studenti, disoccupati e utenti al primo accesso). E’ il modello freemium, da anni diventato il principale nell’industria dalla quale provengo (n.b. i videogiochi) ed in altri ambiti economici. Il vantaggio di un sistema misto è quello di abbattere ogni possibile attrito economico consentendo l’accesso ad una parte allestitiva, spesso quella fissa e più lunga da esplorare, a titolo puramente gratuito per poi stimolarlo a visitare, a pagamento, le mostre temporanee presenti che invece avranno una bigliettazione specifica.
Nelle prossime settimane seguiranno ulteriori analisi qualitative dei pubblici culturali!